Rinuncia al credito dei dividendi da parte dei soci persone fisiche non in regime d’impresa.

L’Agenzia delle Entrate perde un’altra occasione per allinearsi al pensiero dottrinale e all’interpretazione della Corte di Cassazione sulla tesi del c.d. incasso giuridico.

Con la risposta n. 182 pubblicata in data 8 luglio, l’Agenzia delle Entrate, oltre a concentrarsi sul trattamento fiscale della rinuncia ai dividendi da parte di soci persone fisiche non imprenditori, ha sfruttato l’occasione per consolidare l’orientamento già manifestato (in occasione delle risposte n. 124/2017 e n. 59/2025) sulla tesi del c.d. incasso giuridico del reddito.

Il tema offre al presente articolo uno spunto di riflessione interessante per evidenziare come la risposta in oggetto si presenti quale ennesima decisione dell’Agenzia resa in contrapposizione sia all’interpretazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione, sia alla corrente di pensiero dottrinale, basata sull’idea di fare cassa e non sul diritto.

In primo luogo, ai fini della nostra anamnesi, urge specificare cosa si intenda per incasso giuridico secondo la tesi dell’Amministrazione finanziaria. L’Agenzia, invero, a partire dalla circolare ministeriale 73/1994, aveva sostenuto che quando un socio rinuncia ad un credito (da compensi spettanti agli amministratori, ovvero da finanziamento, includendo in tale ultima rinuncia la sorte interessi maturata), al fine di evitare salti d’imposta, tale credito debba considerarsi incassato da parte del socio e riversato alla società, con la conseguenza che siano da intendersi incassati giuridicamente i relativi interessi, e dunque assoggettabili a ritenuta, attraverso una fictio iuris di matrice antielusiva.

E pur tuttavia, le esigenze che avevano motivato la tesi dell’incasso giuridico così propinato, vengono meno nel 2015. Per rimediare alle asimmetrie fiscali, infatti, il legislatore, con il D.Lgs. n. 147, ha modificato la normativa di riferimento sia per la società partecipata, sia per il socio creditore, rispettivamente agli articoli 88, 94 e 101 del TUIR. In particolare, l’art. 88 è stato integrato dall’aggiunta del comma 4-bis che scompone l’operazione di rinuncia, senza più trattarla come un apporto patrimoniale da parte del socio. La novellata norma stabilisce, infatti, che la rinunzia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale.

 E come si stabilisce tale valore? È il socio medesimo a comunicarlo alla società partecipata attraverso la redazione di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, in assenza della quale il valore fiscale del credito si assume pari a zero, rendendo dunque tassabile l’intero ammontare in capo alla società. Ora, nel caso oggetto d’interpello, l’Agenzia delle Entrate, contravvenendo alla dottrina ed al medesimo atto di notorietà richiamato nell’interpello e con i quali i soci non imprenditori determinavano il valore fiscale del credito, ha dichiarato che il valore fiscale del credito non è pari a zero, bensì equivalente al valore nominale dello stesso. Una simile interpretazione è, tuttavia, antitetica all’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, individuabile nelle sentenze n. 14921 del 2025 e n. 16595 del 2023. Nell’ultima è difatti pronunciato il seguente principio:

in tema di imposte sui redditi di capitale – in ragione di quanto previsto dall’art. 88, comma 4-bis, art. 94, comma 6, art. 101, comma 5, t.u.i.r. a seguito delle modifiche di cui alla L. 14 settembre 2015, n. 147, art. 13 – la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, comma 5, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta, avendo le nuove disposizioni rimediato all’asimmetria fiscale o “salto d’imposta” di cui al precedente regime”.

Di fatto, così, la Suprema Corte si uniforma a quanto avvalorato dalla dottrina, affermando che la rinuncia ad un credito vantato dal socio nei confronti della società, in quanto riconducibile al campo di applicazione dell’art.88 comma 4-bis del TUIR, costituisce per la società sopravvenienza attiva rilevante per la sola parte che eccede il relativo costo fiscale, e sostenendo altresì che, invece, l’ammontare della rinuncia si aggiunge al costo della partecipazione nel limite del valore fiscale del credito rinunciato, non implicando alcuna tassazione in capo al socio creditore.

Ciò nonostante, l’Agenzia delle Entrate, rimanendo arroccata nelle sue convinzioni, nella recentissima risposta n. 182, resa sulla scia della n. 124 del 2017, è pervenuta a tutt’altre conclusioni: ossia che la società contribuente vada esente da tassazione da sopravvenienza attiva e che la rinuncia al credito dei dividendi effettuato da persone fisiche (non esercenti attività d’impresa nel caso di specie) costituisca incasso tale da comportare l’applicabilità della ritenuta del 26%, ai sensi dell’art. 27 del D.P.R. n. 600/73.

È lapalissiano rilevare come il maggior profilo di criticità di una siffatta impostazione attenga al contrasto con i principi generali del nostro ordinamento tributario e, più precisamente, come indicato la stessa Corte di Cassazione, con la violazione dei principi sia costituzionali – ossia la riserva di legge e la capacità contributiva -, sia di diritto sostanziale formatosi nel testo unico delle imposte sui redditi.

In conclusione, l’esegesi concepita dall’Amministrazione Finanziaria non può che dirsi fuorviante, e peraltro anacronistica, alla luce dell’intervento operato dal novellato art. 88 del T.U.I.R. per abolire disparità nel binomio socio-società sia in termini di asimmetrie tra tassazione della società e (assenza di) deduzione per il socio, sia in pericoli di iniquità rispetto alla sostanza economica dell’operazione.

Il Team Noverim Legal STA
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